martedì 19 febbraio 2008

Specchio d'Acqua


Questa storia comincia così: con uno scorcio di grigio, statico, umido, dall’aria malsana; con una vecchia casa che si affaccia sulla palude. Il cielo sempre uggioso, denso di nuvole, spesso una pioggerellina così sottile che non è neppure visibile agli occhi: un angolo di un dove qualsiasi, sperduto, dimenticato, in cui il sole appare di rado, pigro, assonnato, come un minuscolo soldino opaco, velato dalla foschia.
É qui che sono nata, insieme a mia sorella. Mio padre e mia madre hanno sempre vissuto qui, sin dal primo giorno del loro matrimonio, un luogo che avrebbe scoraggiato anche la coppia più innamorata e romantica a trasferirvisi. La casa, vecchia già allora, era la stessa dove avevano vissuto i miei nonni tutta una vita, la casa dove mio padre stesso fu concepito e allevato, la stessa in cui i suoi genitori si spensero serenamente, entrambi.
Non racconterò la storia dei miei genitori: si sono conosciuti quand’erano ancora ragazzini e il loro amore è andato avanti costantemente, senza scosse né travagli, culminando nel tradizionale matrimonio: una storia così disperatamente normale da essere monotona, banale a narrarsi.
Per lungo tempo i miei non riuscirono ad avere figli, e proprio quando ormai la giovinezza sembrava averli abbandonati si compì finalmente il miracolo, un doppio miracolo: un parto gemellare che diede alla luce me, cui decisero di apporre il nome Sonia, e mia sorella, Sofia.
Sebbene identiche nell’aspetto, due graziosissime bambine dagli occhi neri e dai capelli scuri e lisci, mia sorella era molto diversa da me nel fisico: debole di costituzione e fragile come una bambola di ceramica, sin dalla nascita ha sempre avuto gravi problemi di salute, e l’aria malsana che abbiamo sempre respirato non l’ha certo aiutata ad irrobustirsi.
Sofia ed io passavamo le nostre giornate giocando nell’umido del terreno acquitrinoso che circondava la palude, sul retro della casa, con le suole delle scarpe sempre inzaccherate e appesantite dal fango e dai detriti che raccoglievamo col solo movimento dei nostri piedi.
Sono sempre stata una bambina vivace e dinamica, così colorata e luminosa nella gioia di vivere, da essere forse sempre stata l’elemento di discordanza, quasi stonato, in quel variegato e immobile universo di grigiore stagnante.
Ricordo che la mamma ci faceva calzare degli stivaletti di gomma lucida, per mantenere i nostri piedini caldi e asciutti pur correndo nelle perenni pozzanghere del terreno: i miei erano gialli come il sole che quasi non avevamo mai conosciuto se non d’estate, quelli di mia sorella rossi, rossi come non so cosa, ma ricordo che a volte li guardavo sentendo i miei piedi avvolti in tanta ottusa stupidità, in quel giallo che rideva di niente senza vedere, senza capire nulla, mentre quel rosso sembrava sapersi contenere da quelle risate inutili, un rosso più saggio e così vicino a ciò che la muta della pelle nasconde ai nostri occhi.
Ed io correvo, ed i miei stivaletti moltiplicavano gli schizzi di gocce impazzite; ed io correvo, riempiendo l’aria dei miei gridolini vivaci da bimba; ed io correvo, correvo; e mia sorella correva, non più di pochi passi; e mia sorella rallentava già stanca, di già provata dal fardello del suo corpicino da bimba sopito che non voleva svegliarsi; e mia sorella si fermava con di già il fiato corto, con un sorriso incrinato dal rendersi conto di non potercela fare; ed io correvo, correvo, tornando indietro e prendendola per le mani tiepide; ed io rallentavo il mio passo e sorridevamo placide insieme.
Mia sorella era la mia unica compagna di giochi, e tutto ciò che facevamo era fatto sempre insieme, in ogni momento della giornata, in ogni aspetto della nostra piccola vita da bimbe, in tutta la creatività delle nostre idee per passare le lunghe, interminabili giornate di pioggia, e quando lei stava male ed era costretta a rimanere a letto per qualche giorno mi sentivo quasi responsabile della sua malattia, per averla fatta stancare troppo coi miei giochi frenetici.
Salivo nella sua stanza, separata dalla mia da una parete secondaria, una barriera aggiunta dalle sapienti mani di mio padre che non voleva che la vista delle sofferenze del suo giovane corpo potessero turbare la mia anima o indurre in lei la vergogna per il suo stato; salivo nella sua stanza e la vedevo distesa e velata dalla tenda bianca che avvolgeva il suo letto, quasi un altare di un’evanescente dea consumata e pallida: quel cerchio di legno sospeso da una vecchia corda fissata al soffitto, e il biancore ingiallito della stoffa velata della zanzariera che scendeva pigra e cieca fino a coprire anche gli angoli del letto, lunga fino al pavimento, con i lembi anneriti da quel lungo e tedioso strisciare per terra e sulle scarpe di chi vi si avvicinava.
Com’erano lunghe le giornate senza la compagnia di mia sorella: mi passava persino la voglia di uscire e di correre, mi sentivo così sola e rimanevo in silenzio in salotto, a guardare le fiamme nel caminetto. Tutti gli oggetti, e persino le pareti con la stoffa della carta da parati ingiallita, sembravano bearsi di quell’atmosfera oziosa e pigra. Il vecchio comò di quercia appartenuto a mia nonna se ne stava lì nel suo angolo, grasso e panciuto come un bruco; sormontato da quello specchio alto non più di quaranta centimetri con il lato superiore ad arco di cupido e quello inferiore che aderiva per tutta la sua lunghezza al piano impolverato, quel piano con quel lungo centrino lavorato all’uncinetto, costellato da qualche piccola cornice d’argento annerito con vecchie foto di famiglia, e quel vaso di ceramica bianca, filato da una crepa nera incollata chissà quanti anni prima in seguito ad un’accidentale caduta, usato come portafiori per quattro girasoli essiccati e un paio di soffioni giganti.
Piuttosto che rimanere in quel sonnacchioso buio silenzioso del salotto avrei tanto preferito salire in camera di Sofia, anche solo per guardarla dormire, ma raramente mi era permesso. E nella mia ignara ingenuità non ne capivo il vero motivo, anche se spesso la notte mi destavo di soprassalto a causa delle urla, o dei lamenti sommessi simili a delle litanie religiose, che le crisi procuravano a mia sorella.
Non avevo mai assistito direttamente ad uno di quei momenti “proibiti” in cui Sofia sembrava trasformarsi in un’altra forma di vita, che nulla più aveva a che fare con questo mondo terreno; i miei genitori me l’avevano sempre vietato, e quando ciò accadeva la porta della sua stanza, la prima in cima alle scale, veniva bandita al mio accesso con un dissonante e rapido colpo di chiavistello.
Ma quando Sofia stava meglio prendevo i libri illustrati di fiabe, e seduta in un angolo del suo letto leggevamo insieme, e lei ritagliava con maestria delle piccole sagome nella carta velina colorata, delle fatine di carta dalle fragili ali, e quando eravamo stanche di giocarci le facevamo morire in una bacinella d’acqua nella quale i loro pallidi colori stingevano in piccole macchie filiformi, che pian piano rendevano il liquido di un nuovo, tenue, colore omogeneo.
Poi entrava la mamma, e mia sorella doveva prendere le medicine, e allora la mia gioia cominciava a sfumare, perché sapevo che presto l’effetto di quella roba avrebbe portato la sonnolenza sulle palpebre della mia compagna di giochi. Ubbidiente spegnevo il mangiadischi, e le allegre canzoncine cantate da un coro di bimbi lasciavano il posto al silenzio, talvolta alleviato dal ticchettio della pioggia sul tetto o dal verso di qualche cornacchia lontana chissà dove nella palude.
Mi sedevo allora vicino alla finestra per non disturbare mia sorella nel suo lento prendere sonno e spazzolavo ripetutamente i sottilissimi capelli biondi della mia bambola, guardavo i suoi occhi celesti girevoli dallo sguardo fisso, la capovolgevo più volte perché quegli occhi si chiudessero con quel rumore quasi liquido: una goccia secca e invisibile per scandire lentamente il tempo senza criterio.

Attraverso la bianca tenda velata sembrava che la densa nebbia della palude fosse penetrata persino tra le pareti della stanza, tutto intorno taceva, persino i giocattoli abbandonati disordinatamente sul pavimento: anche loro erano momentaneamente privi di vita, finché mia sorella non li avesse ripresi tra le sue mani che stillavano quella gaia vivacità che io non ero capace di infondere con le mie.
A volte neppure la pioggia veniva a tenermi compagnia, di tanto in tanto il verso lontano di qualche uccello di cui non riuscivo neppure ad immaginarmi l’aspetto, a volte i passi nel corridoio, pian piano risucchiati dal silenzio, ed io pensavo che un altro giorno uguale sarebbe andato via, e che io avrei dormito ancora una volta. Sentivo già il mio corpo intorpidirsi, le palpebre farsi pesanti, capivo che altro non potevo fare se non abbandonarmi nel denso fluido di quel sonno innaturale: se non potevo farlo nella vita reale l’avrei fatto nel mondo di Morfeo, così aspettavo che la fantasia venisse a popolare i miei sogni per giocare con loro.