domenica 14 ottobre 2007

Donna aracnide


Aracnide era una donna vera, alchemica, con la sua bellezza dagli occhi incredibilmente grandi e neri, quello sguardo melanconico mal celato dalle lunghe ciglia. Guardando il viso di Aracnide si aveva l'impressione che tutto fosse come doveva essere, ogni dettaglio della sua bellezza non poteva essere altrimenti: si potrebbe immaginare il volto di chiunque con un colore diverso di occhi, un altro naso, un'altra bocca...Aracnide no, era l'allegoria perfetta della sua stessa terra generatrice, donna del sud nella sua accezione più poetica e veritiera, ogni cosa in lei era giusta e in armonia con il resto del cosmo.

Nel sorriso di Aracnide c'è tanta tenerezza, ma i suoi occhi e le sue labbra non sorridono mai insieme, come le due ampolle di una clessidra in cui quei granelli sottilissimi e talmente impalpabili da sembrare un fluido, di una tristezza tendente all'azzurro, si riversano sempre solo in una parte dell'espressione del suo volto; un riflesso che luccica sulla superficie ondulata del mare del suo cuore come la luna che sembra specchiare il suo abbandono solitario e che si chiede perché, in una rassegnazione che in realtà non esiste.

Ma la luce di Aracnide è solare e bianca, accecante come il bianco dei muretti a secco in un mezzogiorno tra la primavera e l'estate, che pullula di vita come gli arbusti che vi crescono tra una pietra e l'altra e le lucertole che vi salgono per riscaldarsi la pelle.

I suoi lunghi riccioli, nella folta chioma scura, sono caparbi come i rovi dei cespugli di more, dolci e profumati come i loro frutti, sensuali come le zampe di un ragno che tesse la perfezione della sua tela: quando Aracnide si dà lo fa totalmente, nella pienezza dei sensi che lasciano un marchio indelebile nell'anima, e tenerla tra le braccia è come ricongiungersi al sacro tepore di Gea.

martedì 2 ottobre 2007

Hommage à la Musique


"Non era bello, non aveva un fisico attraente, ma aveva un modo di sorridere e di sentire la musica quando suonava il violino che riusciva a toccare le corde più sensibili fin nel più profondo dell’anima di chiunque. In lui riconoscevo quel sentimento di traboccante sensazione nel cuore che forse alcuni chiamano “ il sacro fuoco dell’arte”.
Non avrei saputo definire con precisione la sua età, quel viso sulla trentina nel quale brillavano occhi dall’entusiasmo infantile, quella scintilla abbagliante che la musica riusciva ad accendere in lui e che lo rendeva partecipe nell’intensità di quelle corde vibranti, per sentire la Musica in se stessi come il respiro, la gioia che l’essenza originaria della musica infonde anche nelle melodie più struggenti e tristi, la gioia più pura che trascende l’allegria e la tristezza e parla direttamente con l’essenza dell’essere.
Un nome che ricordava la romanità che diversi secoli fa aveva dominato il suo Paese, l’oscuro fascino sinistro della sua terra a Est, ed eccolo lì nel suo pallore, con le borse livide sotto gli occhi e il violino sotto il mento…a prima vista di temperamento mite, ma appena quell’archetto cominciava a danzare tutta la sua grinta veniva fuori sorprendendo ogni ascoltatore.
Una promessa forse fatta a caso: gli avevo chiesto di studiare un pezzo per me, e anche se forse lui non se ne ricordava già più a me piaceva immaginarlo nella sua stanza, da solo nella penombra, dedicarmi senza che io potessi saperlo lunghe ore di musica in lotta appassionata contro il suo violino.
Andavo ad ascoltarlo ogni giorno sul calar della sera: era lui il cuore e la mente di un quartetto di archi che suonava al centro del ponte degli artisti, sulla Senna, nel cuore di Parigi. Mi sedevo sul gradino del marciapiede e cercavo subito il suo sguardo che mi salutava con un onorifica alzata di sopracciglia che comunicava sempre un compiaciuto stupore nel vedermi arrivare ogni volta così, all’improvviso, dal nulla, a portargli un sorriso luminoso come un raggio di sole.
Un attimo dopo il suo sguardo fuggiva da me e chiudendo gli occhi per un istante ritornava nel trasporto della sua musica, e allora anch’io prendevo un bel respiro socchiudendo le palpebre e mi lasciavo inondare da quel fluido penetrante di note che si impossessava di me facendomi esplodere il cuore nel petto.
Non distoglievo lo sguardo da lui neppure per un attimo, anche se a volte l’emozione sempre crescente che lui riusciva a scatenare fin oltre la prigione della mia anima faceva roteare le mie pupille verso l’alto fino a scomparire nell’ombra sotto le palpebre, un piacere sensuale e spirituale allo stesso tempo così intenso da non poter restare ad occhi aperti.
Un fremito ogni tanto mi scuoteva come un brivido di freddo, e abbandonandomi del tutto al fervore carezzevole della melodia seguivo con gli occhi l’estremità dell’archetto disegnare immaginari piccoli cerchi nell’aria e tanti piccoli tagli nel cielo che lentamente sfumava dal rosa pastello del tramonto all’azzurro sempre più profondo della sera, fino a quando non appariva la prima stella che brillava, ne ero sicura, con la stessa luce che portavo per lui in quel momento negli occhi.
Melodie struggenti o appassionate, le sosteneva tutte con un incredibile uragano emotivo, ed io in quel momento non avrei saputo resistergli, schiava e di già completamente posseduta dalla sua musica, era la mia stessa anima, il potere vinto della mia volontà che già gli apparteneva e gli tendeva le catene invisibili legate ai miei polsi perché lui potesse afferrarle.
La mia partenza è arrivata così all’improvviso, l'ho salutato sulla promessa di rivederci alla fine dell’estate, quando lui avrebbe suonato per me il commovente ed estatico brano che gli avevo chiesto con tanta insistenza. Nel momento stesso in cui l'ho salutato pronunciando il suo nome, compiacendomi di sentirne il suono nella bocca e sotto la lingua, mi resi conto che avrei voluto aspettare qualche istante in più per colmare un vuoto che c’era ancora tra noi.
Non sapevo di lui che il suo nome e qualche altro insignificante dettaglio che ero riuscita a rubargli chiacchierando, per lui io ero la passante baudelairiana che spuntava ogni volta senza preavviso come un’apparizione.
Ho sperato con tutta me stessa di poter ritornare nella bella Parigi prima che le giornate di sole che permettevano i concerti all’aperto finissero, ma le mie speranze furono vane e l’inverno arrivò prima di me a raggelare l’aria e a bagnare con le sue piogge insistenti le strade e i tetti della Ville Lumière. Ritornai al ponte, sconsolata, in un giorno di forte vento di metà dicembre per osservare l’asfalto vuoto dove posava il puntale del violoncello e dove quella musica che riempiva tutta l’aria era semplicemente assente, senza aver lasciato alcun segno del suo passaggio.
L’inverno mi sembrava più lungo del previsto, ed era soltanto a metà del suo ostile percorso. Per compensare a quell’aridità desertica che mi era rimasta in fondo all’anima passavo lunghe, lunghissime ore intenta nell’ascolto della musica che ricordavo di avergli sentito suonare o che immaginavo potesse eseguire lì, o lontano non sapevo quanto, ma dove io non potevo di certo sentirlo.
La consapevolezza di aver abbandonato la Musica ritornò a pesarmi come un macigno sulle spalle, forse più forte di quanto non aveva mai fatto, e a poco serviva imparare a memoria paroloni e nomi di autori e opere, a poco serviva allenare incessantemente l’orecchio nell’ascolto e nella conoscenza della musica classica: tutto ciò che rimaneva sui palmi delle mie mani e in fondo al cuore era un penoso e angosciante senso di impotenza, la gioia e l’estasi nelle quali mi lasciavo trasportare durante l’ascolto sfumavano ben presto in un logorante tormento, nel dolore nostalgico dell’esiliato scacciato e tenuto alla larga dalla propria patria.
Sognavo di liberare la voce nelle arie più patetiche o energiche, di muovere le dita incessantemente sulle corde o sui tasti di diversi strumenti e di sentirne le vibrazioni fin nei meandri più profondi e nascosti della carne, ma la mia inettitudine bloccava quella voglia di liberare l’anima nel suo grido primordiale di identità, e tutto ciò che rimaneva era il peso del silenzio imposto, castrante, la mia incapacità di far musica."