sabato 21 febbraio 2009

venerdì 6 giugno 2008

O Romeo Romeo...Inchiesta sui romantici.



Romantico è chi sospira guardando il mare, le stelle, la luna, l'alba e il tramonto. Romantico è chi ti dedica la propria arte: chi scrive una canzone, una poesia, dipinge, canta, suona per te. Romantico è chi ti dedica la sua solitudine anche se tu non lo saprai mai. Romantico è chi ascolta più volte la stessa canzone per rivivere il pensiero di te. Romantico è chi immagina di poterti rapire. Romantico è chi ti identifica accanto a lui nelle coppie dei protagonisti di un libro o di un film. Romantico è chi parla di te con gli altri quando tu non ci sei, per renderti presente. Romantico è chi freme sfiorandoti la mano. Romantico è chi arrossisce pensando che ciò che prova sia visibile agli occhi degli altri. Romantico è chi ti cerca con lo sguardo nella folla. Romantico è chi ti guarda quando tu non lo vedi. Romantico è chi guarderebbe per ore i tuoi occhi, chi rimarrebbe sveglio per guardarti dormire. Romantico è chi perde l'appetito per l'ansia o l'emozione di vederti. Romantico è chi fa qualcosa di buono per te senza che tu lo venga mai a sapere. Romantico è chi, ascoltando una canzone con te, considera le parole ascoltate come un messaggio per voi.Romantico è chi ama vederti sorridere. Romantico è chi pronuncia il tuo nome per il piacere di sentirne il suono. Romantico è chi continua a sognarti nel suo sonno. Romantico è chi spera di incontrarti per caso, chi cambia strada per creare il caso di incontrarti. Romantico è chi mette da parte la razionalità...ma un romantico può amare davvero?

Come nel Romanticismo come corrente letteraria, per il romantico l'ambiente circostante, in particolar modo la natura, diventa specchio e metafora dello stato d'animo dei personaggi, così un romantico alimenta goccia a goccia con tutta una serie di "abbellimenti" d'atmosfera, quello che dice di provare. Ma quanto, in tutto ciò, riguarda davvero l'altra persona reale, in tutto il processo mentale e soprattutto solitario, che il soggetto romantico compie con se stesso?


Il romantico adopera determinati elementi del mondo esterno per alimentare un sentimento che in realtà è fatuo: una canzone, un chiaro di luna, l'immensità del mare...il romantico si dà in pasto agli elementi esaltatori di emozioni, per accrescere un sentimento che in realtà con l'altra persona ha ben poco a che fare. Amore e amante perfetto, shakespeariano, dal fascino che potrebbe uccidere, ma che continua a vivere nel suo mondo nel quale tu, come persona reale, non entrerai mai.

sabato 24 maggio 2008

Come diceva Leopardi...


IL PENSIERO
DOMINANTE

"Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; ********


Ai lugubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir proprio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguàr. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei
."

lunedì 5 maggio 2008

venerdì 21 marzo 2008

De retour à Paris


Au revoir Paris,
adieu mon rêve mort à jamais
et mon cauchemar toujours vivant.
Veni Vidi Vici.
Mais tes larmes me blessent encore...

martedì 19 febbraio 2008

Specchio d'Acqua


Questa storia comincia così: con uno scorcio di grigio, statico, umido, dall’aria malsana; con una vecchia casa che si affaccia sulla palude. Il cielo sempre uggioso, denso di nuvole, spesso una pioggerellina così sottile che non è neppure visibile agli occhi: un angolo di un dove qualsiasi, sperduto, dimenticato, in cui il sole appare di rado, pigro, assonnato, come un minuscolo soldino opaco, velato dalla foschia.
É qui che sono nata, insieme a mia sorella. Mio padre e mia madre hanno sempre vissuto qui, sin dal primo giorno del loro matrimonio, un luogo che avrebbe scoraggiato anche la coppia più innamorata e romantica a trasferirvisi. La casa, vecchia già allora, era la stessa dove avevano vissuto i miei nonni tutta una vita, la casa dove mio padre stesso fu concepito e allevato, la stessa in cui i suoi genitori si spensero serenamente, entrambi.
Non racconterò la storia dei miei genitori: si sono conosciuti quand’erano ancora ragazzini e il loro amore è andato avanti costantemente, senza scosse né travagli, culminando nel tradizionale matrimonio: una storia così disperatamente normale da essere monotona, banale a narrarsi.
Per lungo tempo i miei non riuscirono ad avere figli, e proprio quando ormai la giovinezza sembrava averli abbandonati si compì finalmente il miracolo, un doppio miracolo: un parto gemellare che diede alla luce me, cui decisero di apporre il nome Sonia, e mia sorella, Sofia.
Sebbene identiche nell’aspetto, due graziosissime bambine dagli occhi neri e dai capelli scuri e lisci, mia sorella era molto diversa da me nel fisico: debole di costituzione e fragile come una bambola di ceramica, sin dalla nascita ha sempre avuto gravi problemi di salute, e l’aria malsana che abbiamo sempre respirato non l’ha certo aiutata ad irrobustirsi.
Sofia ed io passavamo le nostre giornate giocando nell’umido del terreno acquitrinoso che circondava la palude, sul retro della casa, con le suole delle scarpe sempre inzaccherate e appesantite dal fango e dai detriti che raccoglievamo col solo movimento dei nostri piedi.
Sono sempre stata una bambina vivace e dinamica, così colorata e luminosa nella gioia di vivere, da essere forse sempre stata l’elemento di discordanza, quasi stonato, in quel variegato e immobile universo di grigiore stagnante.
Ricordo che la mamma ci faceva calzare degli stivaletti di gomma lucida, per mantenere i nostri piedini caldi e asciutti pur correndo nelle perenni pozzanghere del terreno: i miei erano gialli come il sole che quasi non avevamo mai conosciuto se non d’estate, quelli di mia sorella rossi, rossi come non so cosa, ma ricordo che a volte li guardavo sentendo i miei piedi avvolti in tanta ottusa stupidità, in quel giallo che rideva di niente senza vedere, senza capire nulla, mentre quel rosso sembrava sapersi contenere da quelle risate inutili, un rosso più saggio e così vicino a ciò che la muta della pelle nasconde ai nostri occhi.
Ed io correvo, ed i miei stivaletti moltiplicavano gli schizzi di gocce impazzite; ed io correvo, riempiendo l’aria dei miei gridolini vivaci da bimba; ed io correvo, correvo; e mia sorella correva, non più di pochi passi; e mia sorella rallentava già stanca, di già provata dal fardello del suo corpicino da bimba sopito che non voleva svegliarsi; e mia sorella si fermava con di già il fiato corto, con un sorriso incrinato dal rendersi conto di non potercela fare; ed io correvo, correvo, tornando indietro e prendendola per le mani tiepide; ed io rallentavo il mio passo e sorridevamo placide insieme.
Mia sorella era la mia unica compagna di giochi, e tutto ciò che facevamo era fatto sempre insieme, in ogni momento della giornata, in ogni aspetto della nostra piccola vita da bimbe, in tutta la creatività delle nostre idee per passare le lunghe, interminabili giornate di pioggia, e quando lei stava male ed era costretta a rimanere a letto per qualche giorno mi sentivo quasi responsabile della sua malattia, per averla fatta stancare troppo coi miei giochi frenetici.
Salivo nella sua stanza, separata dalla mia da una parete secondaria, una barriera aggiunta dalle sapienti mani di mio padre che non voleva che la vista delle sofferenze del suo giovane corpo potessero turbare la mia anima o indurre in lei la vergogna per il suo stato; salivo nella sua stanza e la vedevo distesa e velata dalla tenda bianca che avvolgeva il suo letto, quasi un altare di un’evanescente dea consumata e pallida: quel cerchio di legno sospeso da una vecchia corda fissata al soffitto, e il biancore ingiallito della stoffa velata della zanzariera che scendeva pigra e cieca fino a coprire anche gli angoli del letto, lunga fino al pavimento, con i lembi anneriti da quel lungo e tedioso strisciare per terra e sulle scarpe di chi vi si avvicinava.
Com’erano lunghe le giornate senza la compagnia di mia sorella: mi passava persino la voglia di uscire e di correre, mi sentivo così sola e rimanevo in silenzio in salotto, a guardare le fiamme nel caminetto. Tutti gli oggetti, e persino le pareti con la stoffa della carta da parati ingiallita, sembravano bearsi di quell’atmosfera oziosa e pigra. Il vecchio comò di quercia appartenuto a mia nonna se ne stava lì nel suo angolo, grasso e panciuto come un bruco; sormontato da quello specchio alto non più di quaranta centimetri con il lato superiore ad arco di cupido e quello inferiore che aderiva per tutta la sua lunghezza al piano impolverato, quel piano con quel lungo centrino lavorato all’uncinetto, costellato da qualche piccola cornice d’argento annerito con vecchie foto di famiglia, e quel vaso di ceramica bianca, filato da una crepa nera incollata chissà quanti anni prima in seguito ad un’accidentale caduta, usato come portafiori per quattro girasoli essiccati e un paio di soffioni giganti.
Piuttosto che rimanere in quel sonnacchioso buio silenzioso del salotto avrei tanto preferito salire in camera di Sofia, anche solo per guardarla dormire, ma raramente mi era permesso. E nella mia ignara ingenuità non ne capivo il vero motivo, anche se spesso la notte mi destavo di soprassalto a causa delle urla, o dei lamenti sommessi simili a delle litanie religiose, che le crisi procuravano a mia sorella.
Non avevo mai assistito direttamente ad uno di quei momenti “proibiti” in cui Sofia sembrava trasformarsi in un’altra forma di vita, che nulla più aveva a che fare con questo mondo terreno; i miei genitori me l’avevano sempre vietato, e quando ciò accadeva la porta della sua stanza, la prima in cima alle scale, veniva bandita al mio accesso con un dissonante e rapido colpo di chiavistello.
Ma quando Sofia stava meglio prendevo i libri illustrati di fiabe, e seduta in un angolo del suo letto leggevamo insieme, e lei ritagliava con maestria delle piccole sagome nella carta velina colorata, delle fatine di carta dalle fragili ali, e quando eravamo stanche di giocarci le facevamo morire in una bacinella d’acqua nella quale i loro pallidi colori stingevano in piccole macchie filiformi, che pian piano rendevano il liquido di un nuovo, tenue, colore omogeneo.
Poi entrava la mamma, e mia sorella doveva prendere le medicine, e allora la mia gioia cominciava a sfumare, perché sapevo che presto l’effetto di quella roba avrebbe portato la sonnolenza sulle palpebre della mia compagna di giochi. Ubbidiente spegnevo il mangiadischi, e le allegre canzoncine cantate da un coro di bimbi lasciavano il posto al silenzio, talvolta alleviato dal ticchettio della pioggia sul tetto o dal verso di qualche cornacchia lontana chissà dove nella palude.
Mi sedevo allora vicino alla finestra per non disturbare mia sorella nel suo lento prendere sonno e spazzolavo ripetutamente i sottilissimi capelli biondi della mia bambola, guardavo i suoi occhi celesti girevoli dallo sguardo fisso, la capovolgevo più volte perché quegli occhi si chiudessero con quel rumore quasi liquido: una goccia secca e invisibile per scandire lentamente il tempo senza criterio.

Attraverso la bianca tenda velata sembrava che la densa nebbia della palude fosse penetrata persino tra le pareti della stanza, tutto intorno taceva, persino i giocattoli abbandonati disordinatamente sul pavimento: anche loro erano momentaneamente privi di vita, finché mia sorella non li avesse ripresi tra le sue mani che stillavano quella gaia vivacità che io non ero capace di infondere con le mie.
A volte neppure la pioggia veniva a tenermi compagnia, di tanto in tanto il verso lontano di qualche uccello di cui non riuscivo neppure ad immaginarmi l’aspetto, a volte i passi nel corridoio, pian piano risucchiati dal silenzio, ed io pensavo che un altro giorno uguale sarebbe andato via, e che io avrei dormito ancora una volta. Sentivo già il mio corpo intorpidirsi, le palpebre farsi pesanti, capivo che altro non potevo fare se non abbandonarmi nel denso fluido di quel sonno innaturale: se non potevo farlo nella vita reale l’avrei fatto nel mondo di Morfeo, così aspettavo che la fantasia venisse a popolare i miei sogni per giocare con loro.

venerdì 11 gennaio 2008

Il Disgusto

Aveva la sensazione di aver ingerito una lucertola sventrata che si contorceva nel suo stomaco in preda a spasmi di agonia, il respiro insufficiente ad ossigenare il petto, ed in una nausea mista ad agitazione aveva soltanto voglia di vomitare.
Lo stesso disgusto avrebbe dovuto provarlo entrando in quell’appartamento minuscolo e sordido in cui stagnava un tanfo insopportabile di posaceneri ricolmi di nero e mozziconi schiacciati di chissà quante settimane prima. Lo squallore di una povertà che ha ben poco di poetico, a parte un violoncello ed uno spartito spiegazzato su un leggio, trascuratamente posati in un angolo buio di fronte a quella sottospecie di materasso sformato, sul pavimento, simile ad un giaciglio da barbone.
Un grido. Nient’altro che un grido urlato fino a farsi male, fino a scartavetrare la gola, fino a non poterne più.
Aveva cominciato così, per svago, soltanto per passare un po’ di tempo in un altro gioco, ma in quella sottospecie di farsa da squallida Commedia dell’Arte di quartiere popolare, la protagonista e la vincitrice avrebbe dovuto essere lei, tutta la ruota dei personaggi di ogni specie avrebbe dovuto avere lei come perno, e nient’altro, nient’altro, nient’altro.
Voleva solo arricchire la sua cornice.
Prese uno specchio e ricominciò a rimirarsi, non lo faceva da tanto: era solo se stessa che doveva amare.
Cominciò a guardarsi assumendo l’espressione di quel visino d’angelo che sapeva fare tanto bene e la rendeva così bella, si osservò sorridere davanti al proprio riflesso per sciogliersi nell’armonia che amava tanto nel suo viso…sì, nessun pericolo, era ancora innamorata di sé, e quella certezza riconquistata le diede una tale soddisfazione che la sua vera natura affiorò fino a rendersi visibile sul volto.
Per un attimo si trovò brutta: tra quei lineamenti d’angelo traspariva in maniera quasi impercettibile la cattiveria che in lei s’era fatta largo a fatica, sgomitando affannata tra tutta la folla di ingombranti principi morali e rimorsi che le avevano inculcato così in profondità.
Era quella la parte oscura che tanto l’aveva spaventata, da sveglia o nei sogni e che aveva cercato a lungo di combattere, ma questa volta non ebbe più paura di guardarla in faccia e stranamente per la prima volta sentì che probabilmente era quella la parte più vera di ciò che era sempre stata.
Non cercò nemmeno di giustificarsi con i soliti nauseanti alibi dolciastri dell’ “è diventata così perché ha sofferto” eccetera, eccetera, eccetera…A chi doveva renderne conto in fondo? Lo spirito della sua cattiveria era proprio quello dell’inganno. La Bugia non aveva il sorriso e gli occhi dolci come i suoi, ma poco importava.
Adesso sì, capiva bene il perché della morale alla televisione, quella della religione e di tutti gli altri che si affannavano tanto per propagare i buoni principi, eh sì, che gran bel guaio sarebbe se ogni uomo avesse scoperto il demonio che porta in se stesso.
Questa presa di coscienza la rese di colpo stanca, sovraccarica di fatica che veniva dal nulla, ripensò alla confusione mentale dei giorni precedenti e si disse che una piccola svista era perdonabile, ma la parentesi era da considerarsi chiusa.
Riprendere le redini in mano, tornare ad avere il controllo su se stessa: non era forse quello l’allenamento in cui si era lanciata, come diceva lei, “sputando sangue e sudore” e cercando di arrivare al traguardo ad ogni costo?
Sì, d’accordo: era stato un bel diversivo, un uragano emotivo che quel vampiro che albergava dentro di lei, assuefatto dalla quotidiana banalità, avrebbe succhiato fino al midollo per tenersi in vita, il drenaggio necessario a quella corteccia arida e dura di insensibilità che in quel momento trovava priva di senso tutta la letteratura e la poesia.
Sì, ammettiamo anche che in un modo o nell’altro fosse stato bello, coinvolgente, insolitamente intenso, “ma ora basta”, diceva…continuare a fingersi pseudo-innamorata era ridicolo, e quella contentezza rosa pesca dal sapore sciropposo era stomachevole e finta.
Basta: quell’idiota aveva giocato le sue carte e recitato il suo ruolo nella farsa e ora basta, largo, lui e le sue stronzate da ragazzino. Il capitolo era chiuso, non c’era più niente per alimentare quel fuoco di paglia che puzzava di discarica abusiva.
Loro due insieme. E dire che per un attimo ci aveva pensato anche lei, sì, anche lei, ma lui era davvero un illuso e un imbecille se pensava che lei avrebbe fatto una qualsiasi cosa per lui che non servisse il proprio immediato tornaconto: non sarebbero mai stati insieme. Quale assurdità!
Un sorriso ironico e asimmetrico le toglieva armonia dal viso. Se era vero che in un modo o nell’altro lui ci aveva pensato, e lei ne dubitava malgrado ciò che gli aveva sentito dire con una sincerità che lei aveva preso per ipocrisia, beh, allora tanto peggio per lui: aveva preso un grosso granchio se pensava che lei si sarebbe adattata a quel personaggio interessante solo in superficie facendone qualcosa di così importante come assegnargli il ruolo onorifico di suo compagno.
Lui non era nient’altro che un ragazzino, sicuramente affascinante, ma solo finché gli si poteva immaginare addosso un personaggio inventato.
"Va a farti fottere", pronunciò contraendo i lineamenti e lanciandosi in una serie di insulti pieni di disprezzo, dalla volgarità a lei insolita.
Si gettò con violenza sul divano con la testa all’indietro e a pancia all’aria: guardava le mosche posarsi sul soffitto e sul lampadario e sognava di schiacciarle a mani nude deliziandosi del piacere perverso dei loro minuscoli organi interni ridotti in poltiglia sul palmo della mano aperta.
Un’altra immagine disgustosa, la nausea non era finita.